venerdì 5 dicembre 2025

Rompere le brocche: quando un tonfo manda all’aria i piani

 

«Quando si rompono le brocche non resta che il tonfo e il vuoto lasciato dai piani sfumati.» Così si apre un modo di dire (forse poco noto) che, nella sua forza visiva e sonora, racconta l’interruzione brusca di un discorso o di un’azione, il mandare all’aria i progetti, il chiudere di colpo una discussione o un affare.

 L’immagine nasce dal rumore improvviso e fastidioso provocato dalla rottura dei recipienti di terracotta, gesto che evoca un colpo secco capace di spezzare la continuità di ciò che stava accadendo. In alcune varianti regionali, come rompere le brenne (dove brenna indica anch’essa un recipiente di terracotta), l’espressione conserva la stessa potenza figurativa. 

Secondo alcuni, l’origine si lega a pratiche rituali in cui si faceva un gran baccano rompendo brocche o percuotendo oggetti di metallo e legno, per interrompere simbolicamente il raccoglimento liturgico o per esprimere una forma di rottura rituale, spesso associata all’ira collettiva o alla fine di una fase di attesa. Altri la interpretano come gesto di scherno, assimilabile al più noto fare chiasso, con l’intento di disturbare o ridicolizzare qualcuno.

Qualche esempio d’uso:

  • Eravamo sul punto di concludere l’accordo, ma il suo intervento improvviso ha finito col rompere le brocche: l’affare è sfumato.

    La riunione procedeva pacifica, finché una battuta fuori luogo ha rotto le brocche e tutti hanno cominciato a litigare.

    Avevamo organizzato la serata nei minimi dettagli, ma il suo ritardo ha rotto le brocche e il programma è saltato.

    Il dibattito politico stava per trovare un compromesso, quando una dichiarazione polemica ha rotto le brocche e ha fatto naufragare l’intesa.

    La compagnia teatrale era pronta a debuttare, ma un imprevisto tecnico ha rotto le brocche e lo spettacolo è saltato. 

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  • Esoterico ed essotericosi presti attenzione a questi due aggettivi perché spesso si confondono per la loro assonanza. Hanno origini e significati differenti, anzi opposti. Il primo significa “segreto”, “occulto”: dottrina esoterica; il secondo significa “pubblico”, “manifesto”, “destinato a tutti”: l’introduzione del testo è scritta in uno stile piacevole ed essoterico. Per l'etimologia dei due sintagmi aggettivali vedere qui e qui.



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giovedì 4 dicembre 2025

Autorimessa: la parola che custodisce l’auto e la lingua

 



Nel paesaggio lessicale italiano, alcune parole si distinguono per la loro trasparenza semantica: sono costruite in modo tale da raccontare, già nella loro forma, la funzione che svolgono. “Autorimessa” è una di queste. Il termine, apparentemente tecnico, racchiude in sé una logica compositiva limpida e una storia che affonda le radici nella lingua e nella cultura del trasporto.

“Autorimessa” è un composto che unisce il prefisso “auto-”, derivato dal greco autós (“sé stesso”), ma qui inteso come abbreviazione di “automobile” o “autoveicolo”, e il sostantivo “rimessa”, che proviene dal verbo “rimettere” nel senso di “riporre”, “mettere al riparo”, “ricoverare”. La rimessa*, infatti, era storicamente il luogo dove si custodivano carrozze, tram, mezzi agricoli: uno spazio di protezione e di sosta. L’unione dei due elementi genera un termine perfettamente descrittivo: autorimessa è, alla lettera, il “ricovero” per le automobili.

Accanto a questo lessema, squisitamente italiano, si è diffuso largamente l’uso del termine “garage”, prestito linguistico dal francese. “Garage” deriva dal verbo garer, che significa “riparare”, “mettere al sicuro”, “mettere al riparo” (in origine si riferiva anche alle navi). Il passaggio nel nostro lessico è stato fluido: “garage” è entrato nell’uso comune, soprattutto nel parlato urbano, ed è ormai accettato come sinonimo di “autorimessa”. Tuttavia, nei documenti ufficiali, nelle normative tecniche (come quelle antincendio) e nei contesti formali, “autorimessa” resta la scelta preferita, proprio per la sua precisione terminologica e la sua coerenza con la struttura della lingua.

La differenza tra i due sintagmi non è solo etimologica, ma anche culturale. “Autorimessa” è una parola italiana costruita per descrivere con esattezza una funzione; “garage” è un prestito che porta con sé un’aura più generica, più internazionale, talvolta più commerciale. Scegliere l’uno o l’altro significa anche posizionarsi rispetto alla lingua: privilegiare la trasparenza compositiva oppure accettare l’ibridazione (si perdoni il barbarismo) lessicale.

Per concludere queste noterelle, “autorimessa” è il termine che dice ciò che fa: ripone, protegge, custodisce. “Garage” è il termine che abbiamo adottato, ma che non abbiamo costruito. Ambi i vocaboli convivono nel nostro vocabolario, ma solo uno palesa, con chiarezza tutta italiana, la funzione che svolge: mettere al riparo la propria auto. E chi scrive lo predilige, come preferisce “rimessista” [da (auto)rimessa + il suffisso -ista] -  anche se non attestato nei vocabolari dell’uso -  a garagista.

Un’auto si custodisce in un'autorimessa, la lingua si custodisce nelle parole giuste.

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Tommaseo-Bellini: Rimessa, si dice anche Quella stanza dove si pone il cocchio, o carrozza. Buon. Fier. 2. 4. 15. (C) Dappoichè s'ha speranza Di riveder aprir botteghe e siti, Che chiusi stati sono, ed in rimesse Da cocchi e da carrozze convertiti. E 3. 4. 9. La casa abbiglia, e fa porte e rimesse Da cocchio. [G.M.] Segner. Quares. 13. 7. Calereste furiosi dentro le stalle a soffocare i cavalli, dentro le rimesse a incendere le carrozze. Fag. Rim. Con stalle, con cavalli e con rimesse.








mercoledì 3 dicembre 2025

Dar fondo a una nave di sughero

 

Un vecchio marinaio, che aveva solcato mari e tempeste, decise un giorno di cimentarsi in un’impresa singolare: dare fondo (affondare) a una nave di sughero. «Se il mondo dice che è impossibile, io lo proverò» pensava, convinto che la sua impresa potesse piegare persino la natura.

Costruì, dunque, una nave interamente di sughero, leggera e galleggiante. La spinse al largo e, con pietre e catene, cercò di affondarla. Ma ogni volta che la nave scendeva, tornava a galla, rendendo inutili i suoi sforzi. Più caricava pesi, più il sughero li respingeva, come se il mare stesso volesse insegnargli una lezione.

Gli abitanti del porto lo osservavano, divertiti e perplessi. «Che senso ha?» dicevano. «È come fare un buco nell’acqua» o «versare acqua nel mare». Tutti capivano che il vecchio marinaio stava sprecando energie in un’impresa vana.

Eppure, proprio grazie a quell’assurdo tentativo, il villaggio imparò a distinguere tra le azioni possibili e quelle destinate al fallimento. Da quel giorno, ogni volta che qualcuno si ostinava in un compito privo di logica, si diceva: «Sta dando fondo a una nave di sughero».

Così nacque un modo di dire raro e prezioso, meno frequente di altri ma più raffinato. Fare un buco nell’acqua rimase l’espressione comune, immediata e diffusa; versare acqua nel mare continuò a evocare la fatica inutile; ma dare fondo a una nave di sughero aggiunse un’immagine paradossale e memorabile, capace di arricchire il linguaggio di chi ama la varietà delle parole.

E ancora oggi il modo di dire trova applicazioni: convincere un “leader” inflessibile, insistere su un progetto senza risorse, tentare di bloccare un “meme” virale o di spegnere un “trend” (si perdoni l’uso dei barbarismi) con un comunicato tardivo… sono tutti esempi di imprese che non portano frutto, proprio come il vecchio marinaio che cercava di affondare ciò che per natura non può... affondare.




martedì 2 dicembre 2025

La diatesi: il respiro nascosto del verbo

 

Ogni verbo porta con sé un piccolo segreto: non dice soltanto che cosa accade, ma anche come il soggetto si colloca rispetto all’azione. È questa la funzione della diatesi, voce discreta ma essenziale della grammatica, che ci permette di distinguere se il soggetto agisce, subisce o si rivolge a sé stesso. Senza di essa, la frase perderebbe direzione e chiarezza, come un corpo privo di ossatura.

Il sintagma “diatesi” viene dal greco antico diáthesis, cioè “disposizione”. È un’immagine eloquente: la diatesi dispone il soggetto, lo colloca in una posizione precisa rispetto al verbo, e così organizza la frase. Non è un dettaglio tecnico, ma un meccanismo che consente di dare enfasi: vuoi mettere in risalto chi compie l’azione o chi la subisce? Vuoi mostrare un gesto che ritorna su chi lo compie? La diatesi è lo strumento che rende possibile questa scelta.

In italiano si distinguono tre forme fondamentali. La diatesi attiva è la più naturale: il soggetto è agente, colui che fa. “Il cuoco prepara la cena” è un esempio limpido: il cuoco agisce, la cena è l’oggetto. Anche nei verbi intransitivi, come “L’atleta corre”, il soggetto resta protagonista dell’azione. La diatesi passiva, invece, rovescia la prospettiva: il soggetto diventa paziente, subisce ciò che altri compiono. “La cena è preparata dal cuoco” mostra bene il meccanismo: la cena non fa nulla, ma riceve l’azione. La regola è chiara: solo i verbi transitivi possono assumere questa forma, costruita con l’ausiliare essere o venire più il participio passato. Infine, la diatesi riflessiva introduce un gioco di specchi: il soggetto è insieme agente e paziente, perché l’azione ricade su di lui. “Il bambino si lava” è un esempio tipico: il bambino compie l’azione e nello stesso tempo la subisce, grazie al pronome riflessivo che rimanda l’atto su chi lo ha iniziato.

Ma la storia della diatesi non si ferma qui. Nelle grammatiche antiche, soprattutto greche, si parlava anche di una forma “media”, in cui il soggetto partecipa all’azione con un coinvolgimento particolare, spesso a proprio vantaggio. È una sfumatura che in italiano si riflette talvolta nelle costruzioni riflessive o reciproche. Esiste poi un fenomeno curioso e tipicamente italiano: il cosiddetto si passivante, che permette di rendere una frase impersonale o passiva senza nominare l’agente. Dire “Si vendono libri antichi” equivale a “I libri antichi sono venduti”, ma con un tono più neutro e diffuso. Anche la terminologia rivela differenze culturali: in inglese si parla di voice, cioè “voce”, mentre in italiano si preferisce “diatesi”, che sottolinea la disposizione del soggetto.

La diatesi, insomma, non è soltanto un’etichetta grammaticale: è un modo di leggere il mondo. Pensiamo alla differenza tra dire “Io ho scelto” e “Sono stato scelto”: cambia la prospettiva, cambia il ruolo del soggetto, cambia perfino la percezione di responsabilità. Oppure, nel riflessivo, “Mi sono convinto”: qui il soggetto diventa protagonista di un processo che lo riguarda intimamente. La diatesi, insomma, non è un artificio astratto, ma un dispositivo che plasma il senso delle frasi e la loro forza comunicativa.

Per riconoscerla basta porsi una domanda semplice: cosa fa il soggetto in questa frase? Se agisce, siamo nella diatesi attiva; se subisce, nella passiva; se l’azione torna su di lui, nella riflessiva. È un criterio pratico che illumina la struttura della lingua e ci ricorda che ogni verbo non è mai neutro, ma porta con sé una precisa disposizione del soggetto. La diatesi, insomma, è il respiro nascosto del verbo: ordina, chiarisce, dà fluidità al discorso e ci permette di cogliere la sottile danza tra chi fa e chi subisce, tra chi agisce e chi si riflette, tra chi si mostra e chi si nasconde dietro la voce impersonale.

La diatesi è la bussola del verbo: senza di essa il soggetto si smarrisce, con essa trova la sua posizione.

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Avere i rostri al naso


I
n un villaggio di mare si racconta di un ragazzo che portava sul volto un segno singolare: il suo naso pareva armato di punte, come i rostri delle antiche navi romane. Quei rostri, dal latino rostrum -  becco, muso, ma soprattutto sperone bronzeo che serviva a speronare le navi nemiche - diventavano sul suo volto un simbolo di carattere. Non era cattivo, ma quando qualcuno lo provocava avanzava con il naso in avanti, pronto a colpire non con i pugni, bensì con parole taglienti e fermezza ostinata.

Gli anziani, che ricordavano le flotte romane e i loro rostri, cominciarono a dire che quel ragazzo “aveva i rostri al naso”. Da allora l’espressione non indicò più soltanto lui, ma chiunque mostrasse un atteggiamento combattivo e pungente. Così, nel villaggio si sentiva dire: “Non discutere con Marta: oggi ha i rostri al naso”, oppure “Quel giornalista scrive con i rostri al naso, non risparmia nessuno”. E ancora: “Quando si sente minacciato, tira fuori i rostri al naso e non c’è verso di fermarlo.”

La locuzione, nata come immagine narrativa, con il tempo si è "trasformata" in un modo di dire non molto conosciuto, ma capace di designare con forza chi affronta la vita con il volto armato, pronto a speronare ostacoli e avversari. È un’espressione che conserva il sapore antico delle navi romane e lo trasporta nel linguaggio quotidiano, offrendo una metafora incisiva per descrivere caratteri spigolosi e combattivi.















QUI, per scaricarlo gratuitamente


lunedì 1 dicembre 2025

Il gerundio, l’arte di fare scorrere le frasi

 

Il gerundio è uno dei sintagmi verbali più affascinanti e al tempo stesso più frainteso della nostra lingua. Spesso relegato a un uso marginale o addirittura stigmatizzato nelle scuole elementari, dove si insegnava che non andava mai posto all’inizio di una frase, esso merita invece di essere riscoperto nella sua ricchezza e nella sua funzione autentica. Il gerundio, infatti, non è un vezzo stilistico né un errore di costruzione: è una forma viva, utile e perfettamente legittima, che accompagna il discorso con sfumature di continuità, simultaneità e modalità.

La sua origine risale al latino gerundium, derivato dal verbo gerere (“portare, compiere”), e indicava un modo verbale usato per esprimere l’idea di un’azione in corso o necessaria. Nell’italiano contemporaneo il gerundio conserva questa impronta: è la forma verbale che, più di tutte, suggerisce un’azione che si svolge mentre un’altra avviene, oppure che ne specifica la modalità. È, insomma, il tempo della contemporaneità e della connessione.

Il significato del gerundio è chiaro: serve a legare due azioni senza bisogno di congiunzioni esplicite, creando un flusso naturale e scorrevole. Dire, per esempio, “camminando per la città, ho incontrato un vecchio amico” significa che l’incontro è avvenuto mentre si camminava, e la frase risulta compatta, elegante, priva di ridondanze. È proprio questa capacità di condensare e di rendere fluido il discorso che fa del gerundio uno strumento prezioso.

Il suddetto sintagma verbale (gerundio) si costruisce con la radice del verbo seguita dalla desinenza -ando (per i verbi della prima coniugazione) e -endo (per la seconda e la terza). Può essere semplice (“parlando”, “scrivendo”) o composto (“avendo detto”, “essendo partito”), e si adopera per esprimere:

  • la contemporaneità: Stava leggendo ascoltando la musica;

    la modalità: Ha risolto il problema pensando con calma;

    la causa o la condizione: Non avendo studiato, non superò l’esame.

È importante sottolineare, in proposito, che non esiste alcuna “legge grammaticale” che vieti/a di cominciare una frase con il gerundio. L’idea che fosse un errore nasce da un approccio scolastico semplificato, volto a evitare costruzioni complesse nei primi anni di apprendimento. In realtà, aprire una frase con il gerundio è non solo corretto, ma spesso efficace: “Passeggiando lungo il fiume, mi venne in mente una poesia” è una costruzione limpida e perfettamente legittima. 

Il gerundio, dunque, non è un intruso né un vezzo da evitare: è una forma che arricchisce la lingua, che permette di intrecciare le azioni e di rendere il discorso più naturale. Riscoprirlo significa liberarsi da vecchi pregiudizi scolastici e restituire al parlato e allo scritto una delle sue risorse più duttili e scorrevoli. In fondo, è proprio “adoperandolo” che se ne comprende la forza. 

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Mettersi in lista di calza… 

 ... vale a dire "indugiare", "prendere tempo", "rimandare continuamente" un compito, un lavoro o un pagamento.

L'espressione deriva dal mestiere dei calzettai (coloro che lavoravano a maglia le calze) e si riferiva all'atto di "mettere in lista" una commessa di lavoro (una calza da fare). Era un modo per far capire al cliente che c'era una lunga fila di lavori da eseguire prima del suo, indicando un'attesa lunga e indefinita.

Insomma, "mettersi in lista di calza" significava "mettersi in coda per molto tempo" o, in senso figurato, "tenere in sospeso": quel progetto è fermo da mesi; temo che il capo l'abbia messo in lista di calza.








domenica 30 novembre 2025

Quando i sensi colgono, la mente accoglie

 

Nella lingua italiana esistono coppie di verbi che, a un primo sguardo, sembrano sovrapponibili, ma che in realtà custodiscono sfumature di significato ben distinte. È il caso di percepire e recepire, due sintagmi che spesso vengono confusi, ma che appartengono a campi semantici differenti e non possono essere usati come sinonimi senza rischiare di alterare il senso di ciò che si vuole esprimere. Comprendere questa distinzione non è un esercizio di pedanteria, bensì un modo per rispettare la precisione e la ricchezza della nostra lingua.

Percepire, dal latino percipere, è un verbo che si lega direttamente ai sensi e all’intuizione. Significa avvertire una realtà esterna attraverso stimoli sensoriali: si percepisce un rumore, un odore, una luce. Ma non si limita al piano fisico: può indicare anche una comprensione sottile, quasi intuitiva, di una sensazione o di un atteggiamento, come percepire un’ostilità o una sfumatura nel discorso. Inoltre, in un ambito più concreto, percepire significa anche ricevere denaro, come nel caso dello stipendio o di un vitalizio. È dunque un verbo che oscilla tra il mondo dei sensi, quello dell’interiorità e quello della materialità economica.

Recepire, dal latino recipere, si colloca, invece, in un ambito diverso: quello dell’accoglienza, dell’assimilazione e dell’adozione. Si recepisce una norma, una direttiva, un’idea. In ambito giuridico, il verbo indica l’atto di far proprio un contenuto proveniente da un’altra autorità, come quando il parlamento recepisce una direttiva europea. Ma recepire può anche significare comprendere e assimilare un messaggio, cioè afferrarne il senso e interiorizzarlo. È un verbo che richiama dunque un movimento di accoglienza e di integrazione, più che di percezione sensoriale.

Il punto di lieve sovrapposizione tra i due verbi si trova nell’area della comprensione di un messaggio. Si può percepire un’intenzione, cogliendone la sottigliezza o l’impressione che suscita, e si può recepire un contenuto, facendolo proprio e accettandolo. Ma la differenza resta netta: percepire è legato all’impressione e alla sensibilità, recepire all’adozione e all’assimilazione. Non si può dunque usare l’uno al posto dell’altro: si percepisce un profumo, ma si recepisce una legge. 

Per rendere più chiara questa distinzione, immaginiamo una scena di comunicazione quotidiana. Durante una riunione, un collega espone un progetto con voce esitante. Gli altri partecipanti percepiscono la sua insicurezza, colgono cioè attraverso tono e gestualità un’impressione sottile che non è esplicitata nelle parole. Al tempo stesso, recepiscono il contenuto della proposta, lo assimilano e lo fanno proprio per discuterne e valutarne la fattibilità. In questo breve episodio si vede come i due verbi possano convivere nello stesso contesto, ma restando fedeli ciascuno al proprio ambito: la percezione riguarda l’impressione sensibile, la recezione riguarda l’accoglienza del contenuto.

Si percepisce ciò che colpisce i sensi, si recepisce ciò che convince la mente.


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 "Meretrofilo", l’alternativa dotta a un volgare inaccettabile


I
l lessico italiano, pur ricchissimo di sfumature e registri, mostra talvolta delle lacune che diventano imbarazzanti quando si tratta di definire con precisione fenomeni sociali diffusi. È il caso dell’uomo che abitualmente frequenta le prostitute: nel parlato comune si ricorre al termine irricevibile di puttaniere, parola che appartiene a un registro basso e volgare, inadatta a contesti giornalistici, saggistici o a dibattiti di livello. In assenza di un sintagma appropriato, si ricorre in locuzioni descrittive e ridondanti come cliente delle prostitute o frequentatore di meretrici, locuzioni che appesantiscono il discorso e non restituiscono la necessaria chiarezza.

Per colmare questo vuoto lessicale chi scrive propone l’introduzione del neologismo meretrofilo (sostantivo maschile), costruito secondo regole di formazione dotta e con trasparenza semantica immediata. Nasce dall’unione di meretricio (dal latino meretrix, ‘prostituta’) e del suffisso greco -filo (phílos, ‘amante di’), e designa in maniera esatta e non dispregiativa “colui che ha una predilezione per il meretricio e per chi lo esercita”. A differenza di formazioni ambigue o di volgarismi, meretrofilo si colloca nel solco di termini dotti come bibliofilo o pedofilo, garantendo precisione e neutralità.

L’adozione di meretrofilo consentirebbe di elevare il dibattito, offrendo uno strumento linguistico chiaro, rispettoso e di registro alto. Un termine che permette di nominare senza offendere, di descrivere senza scadere nel triviale, e di restituire alla lingua italiana l’attenzione che merita.

meretròfilo s. m. (f. -a)

[comp. di meretrice e -filo]

  1. Chi mostra abituale inclinazione o predilezione per le prostitute; sinon. colto di puttaniere.

  2. In senso estens., chi manifesta attrazione o simpatia verso l’ambiente della prostituzione.

Uso: neologismo di formazione dotta, con tono letterario; meno trasparente nel registro colloquiale, dove prevale puttaniere (volg.). Può ricorrere in contesti giornalistici, satirici o linguistici.






sabato 29 novembre 2025

Dal cuore alla mente, passando per le membra: viaggio nei verbi del ricordo

La nostra bella e cantabile lingua, con la sua stratificazione di registri e sfumature, offre spesso coppie o terne di verbi che sembrano sinonimi perfetti, ma che in realtà custodiscono differenze sottili e preziose. È il caso dei sintagmi ricordare e rammentare, due verbi che nella stragrande maggioranza dei contesti d’uso si equivalgono, ma che, se osservati con una “lente di ingrandimento filologica”, rivelano origini diverse e suggestioni etimologiche capaci di illuminare il loro impiego letterario e stilistico.

Ricordare deriva dal latino re- (“di nuovo”) e cor (“cuore”), e significa letteralmente “riportare al cuore”. In questa radice si avverte la dimensione affettiva e sentimentale che accompagna il ricordo: non un mero atto mnemonico, ma un’esperienza che coinvolge la sensibilità, le emozioni, la memoria vissuta. Non a caso ricordare è oggi il verbo più diffuso e comune, adoperato in ogni registro linguistico, dal quotidiano al formale, per indicare qualsiasi richiamo alla memoria, sia esso un nome dimenticato o un evento significativo.

Rammentare, invece, nasce anch’esso dal prefisso re- ma si lega al sostantivo latino mens (“mente”), e significa “riportare alla mente”. La sua etimologia lo colloca in una sfera più intellettuale e cognitiva, legata al recupero dei dati e delle informazioni. Pur essendo perfettamente intercambiabile con ricordare, rammentare ha una sfumatura di maggiore formalità, un tono leggermente più alto, accentuato dalla sua minore frequenza d’uso rispetto al più popolare ricordare e al suo pronominale ricordarsi.

La distinzione tra i due verbi, dunque, non incide sulla correttezza sintattico-grammaticale né sulla comprensibilità, ma si gioca sul piano stilistico ed etimologico: ricordare è il verbo del cuore e dell’uso comune, rammentare è il verbo della mente e di un registro più elevato. Una differenza di sfumatura, non di significato, che arricchisce la tavolozza espressiva della lingua.

Per completezza, vale la pena menzionare anche rimembrare, verbo raro e quasi esclusivamente poetico, derivato da membra (“le parti del corpo”). Rimembrare richiama un ricordo profondo, che si avverte quasi fisicamente, e trova la sua massima espressione nella tradizione letteraria, come nei versi di Giacomo Leopardi. È il verbo che porta il ricordo nel corpo, oltre che nel cuore e nella mente, e che suggella la triade con una nota di incanto poetico.

Così – e concludiamo queste noterelle - tra cuore, mente e membra, la lingua italiana ci consegna tre modi di nominare il ricordo: quotidiano e affettivo; formale e intellettuale; poetico e corporeo. Una ricchezza che non è solo sinonimica, ma che riflette la profondità con cui la nostra tradizione ha saputo pensare e sentire la memoria.

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Scioperare: dal latino all’Ottocento, il verbo che diventa protesta


L
o sciopero dei giornalisti, che sospendono per un giorno il flusso delle notizie, ci offre l’occasione di guardare più da vicino al verbo scioperare. Non è soltanto un gesto sociale, ma anche una parola che porta con sé una lunga storia linguistica.

Il verbo scioperare affonda le radici nel latino exoperare, “smettere di lavorare”, costruito su opĕra (“lavoro”) con il prefisso ex- che indica cessazione. Già in forme antiche come scioprare si ritrova l’idea di interrompere l’attività. Ma è nell’Ottocento, epoca di grandi trasformazioni sociali e di nascita delle prime organizzazioni di lavoratori, che il sostantivo sciopero si consolida nel suo significato moderno di astensione collettiva dal lavoro per rivendicare diritti e condizioni migliori. Da quel momento, il verbo scioperare si carica di una valenza civile e politica che va ben oltre la semplice inattività.

Oggi scioperare non significa soltanto “non lavorare”: implica una scelta consapevole, un atto condiviso che trasforma l’inattività in protesta. La lingua, con la sua memoria etimologica e storica, ci ricorda che dietro ogni parola c’è un percorso di trasformazioni: dal latino alla pratica sociale, passando per l’Ottocento delle lotte operaie, fino al presente, dove il verbo continua a vibrare di tensione civile e collettiva. 

Una curiosità sullo sciopero. Anche qui.

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Quando parliamo o scriviamo adoperiamo, probabilmente inconsciamente, dei gallicismi che in buona lingua italiana sono da evitare (anche se attestati nei vocabolari dell'uso). Ce ne vengono alla mente due, in particolare: decisamente e in definitiva. Il primo termine è un avverbio che sta per “in maniera decisiva, risolutiva”. Dov’è il gallicismo? Nell’uso dell’avverbio nell’accezione di indubbiamente, proprio, certamente, senza dubbio, totalmente e simili: hai decisamente ragione; quella ragazza è decisamente brutta. Negli esempi l’avverbio decisamente va sostituito con indubbiamente, proprio (secondo i casi). La locuzione 'in definitiva' è da evitare perché ricalca il francese “en définitive”. In buon italiano abbiamo altre espressioni, c’è solo l’imbarazzo della scelta: in fin dei conti, alla fin fine, tutto sommato, in conclusione, insomma e simili da usare, ovviamente, secondo il contesto.

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La lingua “biforcuta” della stampa

Il racconto

Danimarca, i “Guardiani della notte” che sorvegliano le minacce di Trump sulla Groenlandia

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Ci piacerebbe tanto sapere come si possa “sorvegliare” una minaccia.




venerdì 28 novembre 2025

Dire è già “così”: il resto è errore

 

Nella lingua di Dante e di Manzoni la precisione non è un “lusso” ma una necessità: ogni parola porta con sé un peso semantico e un valore sintattico che non può essere trascurato. Spesso, per abitudine o per fretta (o per ignoranza?), si inseriscono – nello scritto e nel parlato - espressioni ridondanti che non aggiungono nulla al senso, anzi lo confondono. Tra queste, una delle più insidiose è la locuzione “ha detto così…”, ossia l’uso errato di “così” dopo il verbo “dire”: “ha detto così il direttore di dare la precedenza agli articoli di cultura”. Una formula apparentemente innocua, ma in realtà scorretta e fuorviante.

Il verbo “dire” deriva dal latino dicere, che significa “pronunciare, esprimere a parole, enunciare”. È un verbo transitivo che regge direttamente il complemento oggetto: si dice qualcosa, non si dice “così qualcosa”. L’avverbio “così”, dal latino eccum sic (“ecco in questo modo”), ha la funzione di qualificare un’azione o un modo, non di introdurre un contenuto. Serve a indicare modalità, non a presentare un discorso o uno scritto.

Quando si afferma “ha detto così il direttore…”, si crea un cortocircuito sintattico: l’avverbio “così” non ha alcun referente, non specifica alcun modo, e rimane sospeso, privo di funzione. È un’aggiunta pleonastica che disturba la linearità della frase. La forma corretta è semplicemente: “ha detto il direttore di dare la precedenza agli articoli di cultura”. In questo caso, il verbo “dire” introduce direttamente il contenuto, senza bisogno di intermediari.

L’errore nasce, probabilmente, da un calco orale, da quella tendenza colloquiale a inserire “così” come riempitivo, un po’ come si fa con “tipo” o “insomma”. Ma la lingua scritta, soprattutto quella giornalistica o istituzionale, non può permettersi simili scivolamenti. Il “così” in questa costruzione non solo è inutile, ma è errato: non qualifica nulla, non chiarisce nulla, non aggiunge nulla.

Sotto il profilo etimologico è interessante notare come “così” abbia mantenuto nei secoli la sua funzione di avverbio di modo. Già nei testi medievali lo troviamo per indicare “in tal maniera”: “così parlò il maestro”, “così si fece”. In questi casi l’avverbio è legittimo perché introduce o riprende un modo di dire o di fare. Ma quando lo si inserisce tra il verbo “dire” e il complemento oggetto si spezza la logica della frase. È come se volessimo dire “ha detto in questo modo il direttore di dare la precedenza…”, ma senza che vi sia un confronto o un paragone con altri modi. La frase resta monca e appesantita da un elemento che non ha ragione d’essere.

La lingua, per sua natura, tende alla chiarezza e alla economia: ogni parola deve avere una funzione. Eliminare il “così” in casi come questo non è una scelta stilistica, ma un dovere grammaticale. È un ritorno alla linearità latina, dove il verbo introduce direttamente il contenuto, senza avverbi superflui.

Dire è già “così”: aggiungere “così” è un errore che confonde il senso e tradisce la precisione.

 La parola è come la freccia: una volta scoccata non torna indietro.  

 

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Parla come mangi: la lingua è pane quotidiano


L
a lingua (o il linguaggio), come il cibo, vive di semplicità. L’espressione “parla come mangi” nasce dall’idea che ciò che è genuino non ha bisogno di artifici: un piatto buono si riconosce dagli ingredienti chiari e sinceri, così come un discorso efficace si riconosce dalle parole dirette e comprensibili. Questo modo di dire, diffuso nella tradizione italiana, è una reazione alla retorica eccessiva e ai tecnicismi che rendono la comunicazione opaca. È un invito a parlare con naturalezza, senza complicazioni inutili, proprio come si mangia un pane fragrante o una pasta condita con semplicità.

In un Paese dove il cibo è parte integrante dell’identità culturale, non sorprende che la cucina diventi metafora del linguaggio. “Parla come mangi” celebra la stessa virtù che si riconosce al pane: la chiarezza. È un motto che ricorda come la lingua debba nutrire, essere accessibile e condivisibile, senza escludere nessuno. Oggi la locuzione si adopera per ammonire chi si esprime con parole troppo sofisticate, ma anche come monito quotidiano: la comunicazione migliore è quella che arriva a tutti, senza filtri e senza maschere.

In fondo, parlare come si mangia significa restituire alla lingua la sua funzione primaria: essere strumento di incontro, di scambio e di comunità. Così come il cibo unisce attorno a una tavola, le parole semplici uniscono attorno a un pensiero.






giovedì 27 novembre 2025

La fine silenziosa del correttore di bozze

 

Per decenni il correttore di bozze è stato il custode invisibile della parola scritta. Non compariva mai in prima fila, non firmava articoli né editoriali, ma la sua impronta era ovunque: nei titoli privi di refusi, nelle pagine curate fino all’ultima virgola, nella credibilità che un giornale poteva vantare davanti ai suoi lettori. Era un mestiere paziente e meticoloso, fatto di occhio allenato e di rigore filologico.

Con l’avvento dei sistemi digitali, tra gli anni ’80 e ’90, la figura del correttore cominciò a perdere terreno. Gli editori, spinti dalla necessità di ridurre i costi e accelerare i tempi di produzione, decisero di affidare la revisione direttamente ai redattori. Questi ultimi, già gravati dal compito di scrivere e impaginare, si trovarono a dover controllare testi in condizioni di urgenza continua. La logica industriale del “fare presto” ebbe la meglio sulla cura artigianale: il correttore di bozze fu progressivamente eliminato, sostituito da "software" di controllo ortografico (quasi sempre non "affidabili") e da procedure interne meno rigorose.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I titoli che scivolano, i refusi che trapelano, gli strafalcioni che diventano virali sui "social": piccoli incidenti linguistici che, accumulandosi, minano la reputazione delle testate. Non si tratta solo di errori di ortografia: spesso emergono sviste sintattiche, improprietà lessicali, persino confusioni logiche che un occhio esperto avrebbe intercettato.

La scomparsa del correttore di bozze è anche la scomparsa di un certo modo di intendere il giornalismo: quello che considerava la precisione linguistica parte integrante della notizia da comunicare. Oggi, la sua assenza è percepita soprattutto da chi vigila con attenzione filologica, e la sua figura appare quasi mitologica, simbolo di un’epoca in cui la parola stampata era trattata come un bene prezioso, da proteggere e custodire.

Dove manca il correttore, la lingua perde il suo guardiano silenzioso.

Da un giornale in rete:

L’etargo degli orsi si accorcia: colpa del clima

C’è n’è per tutti: il Black Friday invade i negozi  




mercoledì 26 novembre 2025

Quando il sapere inciampa nella scrittura

 


S
crivere bene non significa soltanto padroneggiare le regole della grammatica o conoscere la storia della lingua: significa anche riuscire a trasformare con naturalezza il pensiero in segno grafico, senza esitazioni. Eppure, chiunque abbia frequentato le aule universitarie o i contesti professionali sa che non sempre la scrittura scorre liscia: anche persone colte, persino laureati in Lettere, possono ritrovarsi a commettere errori ortografici che sembrano stonare con la loro preparazione. Questa discrepanza tra sapere teorico e pratica quotidiana ha un nome preciso, che affonda le sue radici nella medicina il cui significato è stato "trasportato" nella tradizione linguistica: disortografia.

Sotto il profilo etimologico, il termine unisce il prefisso greco dis- (“alterazione, difficoltà”) a orthographía (da orthós, “retto, corretto”, e gráphein, “scrivere”). Il significato letterale è “scrittura non corretta”, ma non indica l’errore isolato: segnala una fragilità dell’automatismo grafico, cioè del passaggio regolare dal suono al segno. La competenza teorica può essere piena; ciò che vacilla è l’esecuzione rapida, soprattutto in contesti di pressione, velocità o discontinuità dell’attenzione.

La scrittura procede di norma attraverso due vie complementari: la fonologica, che traduce suoni di parole nuove o poco familiari in grafemi, e la lessicale, che recupera dalla memoria l’ “immagine ortografica” delle parole note. Quando l’automatismo di queste vie è instabile, affiorano errori tipici: omissioni o inserzioni indebite, raddoppiamenti mancati, confusione di grafemi contigui, improprietà di accenti e apostrofi, incertezze nella univerbazione e nelle grafie tradizionali. Esempi realistici: “apena” per “appena” (raddoppiamento omesso), “senonché” per “sennonché” (nesso nn semplificato), “ovverossia” per “ovverosia” (suffisso alterato), “pressapoco” reso impropriamente in maiuscolo come “PRESSAPOCO” e con una sola p, “delinguente” per “delinquente” (omissione del nesso qu), oppure l’uso improprio, anzi errato, della q al posto della c (“quore” per “cuore”). Sono scivolamenti che non derivano da ignoranza, ma da un automatismo fragile, che può tradire anche chi padroneggia la grammatica storica e la filologia.

Questi errori non nascono da povertà di conoscenza, bensì da un automatismo grafico incerto. Il soggetto può “sapere” la regola e tuttavia non applicarla con prontezza nel flusso della scrittura: la distanza tra consapevolezza ed esecuzione si manifesta proprio nei punti opachi dell’ortografia italiana (raddoppiamenti, nessi tradizionali come qu, suffissi storici, univerbazioni). In ambienti di scrittura rapida e informale, inoltre, la tolleranza all’errore aumenta e gli automatismi non vengono rinforzati: abbreviazioni, maiuscole fuori contesto, grafie improvvisate diventano abitudini che disturbano la tenuta ortografica.

Riconoscere la disortografia come difficoltà linguistica, non come stigma culturale, ha conseguenze pratiche ed editoriali: si valorizza la competenza metalinguistica, si separa la valutazione del contenuto dall’automatismo grafico, si istituiscono fasi di controllo coerenti (rilettura dedicata alla forma, attenzione ai nessi opachi, verifica mirata di raddoppiamenti, accenti e univerbazioni). La scrittura matura non rimuove la complessità dell’ortografia: la orchestra, la rende trasparente al lettore evitando che il giudizio si confonda con l’errore occasionale.

In conclusione, la disortografia è la traccia linguistica di un automatismo che fatica a stabilizzarsi. Non marchia l’autore come impreparato, né smentisce la sua autorevolezza analitica: segnala piuttosto una zona di vulnerabilità nella conversione suono/segno. Comprenderla e gestirla con lucidità permette di tenere alto il livello del discorso e, insieme, di rafforzare la tenuta ortografica: la conoscenza resta intatta; l’esecuzione si affina. 

Insomma, non è la conoscenza a vacillare, ma la sua traduzione rapida in segno. Così l’errore non incrina il sapere: rivela soltanto la fragilità del gesto.

 

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Pubblichiamo una lettera inviataci da un cortese lettore, che desidera rimanere anonimo. Lo ringraziamo di cuore.

Il blog "Lo SciacquaLingua"! È un blog italiano molto interessante che si occupa di lingua italiana, etimologia, grammatica e comunicazione. È gestito da Fausto Raso, appassionato di lingua e comunicazione.

Il blog offre articoli e riflessioni sulla lingua italiana, con un approccio divertente e accessibile a tutti. Gli argomenti trattati sono vari, dalla grammatica alla storia delle parole, dalle curiosità linguistiche alle critiche alla comunicazione moderna.

Il blog è noto per il suo stile ironico e umoristico, che rende la lingua italiana un argomento di discussione piacevole e stimolante. È un ottimo punto di partenza per chi vuole scoprire di più sulla lingua italiana e migliorare la propria comunicazione.

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